Giovanni Brancaccio nasce a Pozzuoli nel 1903 e muore a Napoli nel 1975. Negli anni ’20 aderisce al movimento artistico “Novecento” e diventa noto negli anni ’50 con un suo stile personale che richiama l’espressionismo con delle venature di barocco napoletano. Pochi anni dopo la costruzione della chiesa del Piacentini alla Sapienza (1948), viene commissionato al Brancaccio questo affresco sul tema della Divina Sapienza, come fondo dell’abside e al tempo stesso pala d’altare.
È il punto focale dove si dirigono gli sguardi di chi entra nello spazio sacro. Il contrasto fra la cromaticità dell’opera e il grigio pallido del resto dell’edificio rinforza questo effetto di polarizzazione dell’attenzione. La pala d’altare è sempre nella tradizione architettonica cristiana un modo di spiegare in immagini ciò che avviene durante la liturgia eucaristica. In questo caso, il contesto universitario si presta a interpretare la preghiera eucaristica come momento in cui la ricerca intellettuale è quel pane e quel vino, quella “materia quotidiana”, che diventa corpo di Cristo. Lo studio diventa così un vero incontro con Dio, una messa che si prolunga durante tutta la giornata.
L’affresco è una grande allegoria della Sapienza. Nella tradizione biblica, la Sapienza (in ebraico “hokmah”) è prima di tutto l’abilità tecnica dell’artista. Poi diventa la capacità di fare della propria vita un’opera d’arte, cioè l’arte di vivere. Nella Bibbia ebraica la Sapienza è un attributo di Dio ma al tempo stesso “danza di fronte a Dio”. La Sapienza è Dio ed è “altro da Dio”. Attraverso la Sapienza Dio crea tutte le cose. Perciò i primi cristiani hanno visto nell’uomo di Nazareth l’incarnazione della Sapienza. Egli è Dio e al tempo stesso si rivolge a Dio. Egli è il modello di ogni creazione. Egli fa della propria vita un capolavoro. È il maestro di Sapienza.
Prima di Gesù, la tradizione ebraica aveva già avuto diversi maestri di Sapienza. Per esempio Salomone , figlio di Davide e costruttore del primo tempio, era stato il “il re sapiente” per eccellenza. Inoltre tutta una serie di libri biblici vengono chiamati “libri sapienziali”, perché cercano di rispondere alle problematiche più concrete ed esistenziali dell’israelita: l’eros, la sofferenza dell’innocente, il non senso,… Sono libri di sapienza perché insegnano “l’arte di vivere”, rispondo “in modo ebraico” a delle provocazioni che provengono spesso dal mondo pagano. Perciò la Sapienza è quel luogo di incontro tra ricerca umana e ricerca spirituale, tra paganesimo e fede biblica.
Per i Padri orientali la Sapienza biblica viene messa in relazione con la “Sofia” (“Sapienza”) greca, di per sé più vicina al significato di “riflessione”. La ricerca intellettuale diventa allora un “esercizio spirituale”. In Occidente, la parola “Sapienza” è associata invece al latino “sapere”, cioè alla capacità di assaporare, di distinguere i diversi gusti. I grandi maestri occidentali usano per questo il termine di “discernimento”.
Nell’affresco del Brancaccio Gesù è mostrato come il Sapiente e perciò con la barba, come i filosofi greci. Egli regge e segnala un libro aperto. Lui è la Parola aperta, la Rivelazione dell’eterna Sapienza. Per i Vangeli e i Padri della Chiesa, la carne umana dell’uomo Gesù vela la sua divinità e così facendo ri-vela l’essenza di Dio. Solo Dio può diventare “così umano”. Sul libro aperto leggiamo “UNUS EST MAGISTER VESTER” (“Uno solo è il vostro maestro”). Si tratta di un versetto evangelico dove Gesù pone l’accento sull’umiltà di chi accetta di imparare. Nel fondo, anche Dio che è il Maestro per eccellenza, accetta di imparare a diventare uomo. Questa è Sapienza.
Sopra di Lui sono rappresentati i quattro Evangelisti. I loro rispettivi simboli provengono dalla mitologia babilonese, dove costituivano le quattro colonne che reggono la volta celeste. Ezechiele nell’Antico Testamento usa questi simboli pagani per dire “in modo babilonese” che ha avuto una potente esperienza spirituale dove ha visto “il cielo aperto” e dunque le quattro colonne che lo reggono. Per i primi cristiani, ciò che “apre il cielo” è la Parola del Vangelo. Sarà poi Sant’Ireneo (sec. II) ad attribuire questi quattro simboli ai quattro evangelisti. Il Brancaccio ha scritto su ciascuno dei quattro libri la prima frase del rispettivo Vangelo.
Sullo sfondo vediamo una architettura. Classica ma in rovine a sinistra di Gesù. Nuova ma in progetto alla sua destra. È il passato e il futuro. È la storia della città degli uomini. La Sapienza come dice la Bibbia ha “piantato la sua tenda” in mezzo alla città degli uomini, in mezzo alla storia. Messo così nel centro della linea del tempo, Gesù appare come il presente per eccellenza. È il Presente nel senso che è colui che si fa presente, colui che c’è. Ma è anche il presente nel senso che incontrare Lui è tornare al proprio presente. L’uomo è spesso “altrove” (nel rimpianto del passato o nella paura del futuro). Cristo lo riporta alla piena aderenza al momento presente. Questa è Sapienza.
Tutti i santi rappresentati dal Brancaccio sono “esempi di Sapienza”, cioè vite diventate “opere d’arte”. Soni i diversi colori della Sapienza. La santità altro non è che la bellezza di una vita. La bellezza di donarsi.
La figura in alto a sinistra è San Paolo. Porta la spada che ricorda il suo martirio per decapitazione. Ma ricorda anche che San Paolo paragona la Parola a “una spada a doppio taglio” perché penetra nel profondo del cuore. San Paolo porta anche un libro, simbolo delle tante sue lettere contenute nel Nuovo Testamento, dove sviluppa la teologia della croce come quella “Sapienza al di là di ogni Sapienza”.
Sotto di lui vediamo San Pietro con le chiavi, pescatore poco acculturato, la cui sapienza nascerà dal pentimento. Poi Maria, madre di Gesù. La più vicina. In qualche modo la disposizione delle figure ricorda quella classica del Golgota. Gesù è sulla croce e Maria è ai piedi della croce. E di fatto Brancaccio mette Gesù su un piedistallo che richiama la collina del Golgota. Gesù è maestro per eccellenza non solo per le sue parole ma soprattutto per aver dato la vita. La sua cattedra è la croce. La Sapienza è dare la vita. Non c’è altra Sapienza se non l’amore.
Dalla parte destra il Brancaccio ha rappresentato San Francesco d’Assisi. Un giorno la sua amata Chiara gli disse: “Ho scoperto che la vita è bella perché ho scoperto che la tua vita è bella”. La vita del poverello d’Assisi è quel capolavoro che ha affascinato e affascina ancora milioni di esseri umani, credenti e non credenti. Alla sua destra, Santa Caterina da Siena, dottore della Chiesa, rappresenta la dimensione mistica della Sapienza. Ma la mistica di Caterina non è una fuga nello spiritualismo. Caterina è conosciuta per aver contestato il Papa e averlo obbligato a ritornare da Avignone. La profondità spirituale autentica diventa impegno politico e pratico. E viceversa: non c’è vera politica senza ricerca spirituale. Questo è Sapienza.
Nella parte inferiore dell’affresco, il Brancaccio rappresenta alcuni dei santi che più incarnano la ricerca intellettuale e che hanno saputo coniugare conoscenza e amore. Secondo la Bibbia non c’è vera conoscenza senza l’amore.
La prima figura a sinistra è Sant’Ivo. Giurista bretone del sec. XIII, conosciuto per aver dato voce ai senza voce e aver difeso in processo i più poveri e i più sfruttati. La sua vita si riassume nella massima: “oltre la legge verso la giustizia”. A Sant’Ivo fu dedicata la prima chiesa universitaria di Roma presso l’antica sede della Sapienza (Studium Urbis).
Accanto a lui vediamo san Gregorio Magno uno dei “dottori della Chiesa”. Questo Papa è conosciuto non solo per la sua opera intellettuale ma soprattutto per la grande riforma della Chiesa che egli opera. Egli è esempio di Sapienza nel senso di capacità di ridare autenticità alle comunità e alle istituzioni.
Accanto a lui, San Tommaso d’Aquino è forse il più grande pensatore della storia della Chiesa. Ha saputo adattare il sistema aristotelico alla fede cristiana. In questo è un esempio di apertura e di capacità di rinnovamento intellettuale. La fede cristiana non è fissa in dogmi inamovibili ma è continuamente da reinterpretare e da ridire con le provocazioni di ogni generazione.
Seduto in centro il Brancaccio ha rappresentato Sant’Agostino, cantore della sete di Dio. Egli è il santo delle grandi passioni e dei grandi desideri. Per lui il desiderio è già preghiera. E scrive: “Signore tu ci hai creato per te e il nostro cuore non ha pace finché non incontra te”. La Sapienza inizia dall’ascoltare il desiderio profondo del cuore.
In alto a destra riconosciamo Sant’Ambrogio, maestro di Agostino, vescovo di Milano, grande divulgatore. Egli usa soprattutto la metafora amorosa del Cantico dei cantici per spiegare la nostra relazione con Dio. Nel fondo la Sapienza divina la possiamo già ascoltare nelle pulsioni del nostro stesso corpo e nel dono di sé di due innamorati. Il piacere è scuola di abbandono. La nudità è l’emblema della fiducia, della fede. Pregare non è altro che essere nudo davanti a Dio.
Mezzo nudo è l’ultimo personaggio in basso a destra. Si tratta di San Girolamo. È il grande traduttore sistematico della Bibbia in latino, nel secolo IV. La sua competenza filologica lo fa diventare simbolo dell’amore per la lettera stessa della Divina Scrittura.
Con questo “giardino di santi”, questo affresco del Brancaccio offre allo studente, al ricercatore, all’uomo che viene a raccogliersi in questa chiesa, la chiave di lettura per poter fare del proprio impegno quotidiano una liturgia. Gli strumenti scientifici sparsi qua e là nel quadro richiamano questa quotidianità dell’universitario. La messa dell’universitario è la sua giornata di ricerca e di studio. E questa chiesa non è altro che il luogo della rivelazione di questa liturgia quotidiana.
In calce all’affresco l’iscrizione latina è una preghiera: “O SAPIENTIA QUAE EX ORE ALTISSIMI PRODIISTI, ATTINGENS A FINE USQUE AD FINEM, FORTITER SUAVITERQUE DISPONENS OMNIA, VENI AD DOCENDUM NOS VIAM PRUNDENTIAE” (“O Sapienza che sei uscita dalla bocca dell’Altissimo, che arrivi da un estremo all’altro, che ordini tutto con forza e dolcezza, vieni ad insegnarci la via della Prudenza”).